Psicoterapia delle psicosi

Non più tardi di qualche decennio fa la schizofrenia (anche detta psicosi cronica) veniva considerata una malattia cerebrale degenerativa. Si riteneva infatti che fosse causata unicamente da un processo biologico. Le evidenze scientifiche attuali però, indicano una sindrome dai confini più complessi e variegati, che è possibile prevenire e trattare con successo in termini di recupero del paziente. Ancora nel 1927 lo psichiatra Harry Stack Sullivan scriveva: “Sono certo che molti casi incipienti di schizofrenia potrebbero essere trattati e risolti ben prima che il contatto con la realtà sia irrimediabile sospeso e una lunga permanenza nelle strutture istituzionali diventi necessaria”. Oggi siamo sicuramente più vicini a realizzare il suo augurio.

Attualmente la psicofarmacologia rimane l’approccio dominante nel trattamento delle psicosi acute e svolge un ruolo significativo nella prevenzione delle ricadute per la maggior parte dei pazienti. Tuttavia, diversi studi hanno dimostrato che i farmaci antipsicotici, se utilizzati come monoterapia a lungo termine, in assenza di una psicoterapia, possono portare a una progressiva compromissione del funzionamento psicosociale dei pazienti, indipendentemente dalla stabilizzazione dei sintomi. L’iniziativa RAISE, un cambiamento di paradigma avvenuto all’inizio degli anni Duemila, ha indicato un obiettivo più ambizioso della semplice riduzione farmacologica dei sintomi nelle psicosi croniche, ponendo gli utenti dei servizi di salute mentale al centro del percorso di cura dando loro la legittima aspettativa di riacquistare capacità funzionali adeguate per il lavoro e le relazioni interpersonali.

Nonostante la psicoterapia della schizofrenia, integrata con altri approcci al trattamento, possa candidarsi per affrontare questa aspettativa, un atteggiamento pessimistico ha sempre ostacolato il suo impiego nella pratica clinica. Freud non credeva che i pazienti psicotici fossero in grado di sviluppare un transfert analizzabile e dunque non aveva fiducia nell’efficacia della psicoanalisi per il trattamento della psicosi. Con rare eccezioni, la comunità psicoanalitica ha pertanto adottato l’atteggiamento di Freud e ha progressivamente abbandonato la cura dei malati mentali gravi. Le scuole di specializzazione in psichiatria hanno seguito l’esempio, lasciando poco spazio all’insegnamento della psicoterapia delle psicosi nei programmi di formazione (Kimhy et al., 2013). L’unica vera eccezione riguarda la psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT), anche se la maggior parte dei suoi sviluppi si sono concentrati sui disturbi d’ansia e depressivi – nonostante uno dei suoi primi report riguardasse proprio un caso di psicosi. Attualmente un adattamento specifico dell’approccio CBT per i disturbi psicotici (CBT-P) viene raccomandato nelle linee guida internazionali, nonostante le evidenze sulla sua efficacia restino tuttora controverse.

Dobbiamo dunque abbandonare l’idea di una terapia analitica delle psicosi? No, soprattutto nelle fasi di esordio della malattia. Esiste un modello integrato di psicoterapia proposto da Michael Garrett, che combina l’approccio cognitivo-comportamentale con la psicoterapia psicodinamica in due fasi sequenziali: una fase iniziale in cui vengono principalmente utilizzate tecniche CBT per esaminare la falsità letterale delle idee deliranti e una seconda in cui si utilizza un approccio psicodinamico per esaminare il significato personale specifico contenuto nei sintomi del paziente.

Questo modello, al quale ho avuto il privilegio di formarmi qualche anno fa, sembra possedere le potenzialità per superare i limiti del modello CBT-P, eccessivamente focalizzato su specifici contenuti cognitivi piuttosto che sugli aspetti fenomenologici dei disturbi psicotici (quali le alterazioni dell’esperienza soggettiva, il diminuito senso di coerenza interiore, l’iper-riflessività e il diminuito senso di appartenenza al proprio corpo e delle proprie azioni). E permette di superare i limiti del modello psicodinamico classico, che tende a porre un’attenzione eccessiva e precoce all’interpretazione dei significati inconsci dei sintomi a discapito dei meccanismi cognitivi del paziente e dell’esperienza cosciente dei suoi sintomi (cosa che, nel momento dell’acuzie, il paziente non è in grado di fare).

Come ho già detto, questo tipo di trattamenti ottengono il massimo dei risultati se somministrati nelle fasi iniziali della malattia o addirittura nelle cosiddette fasi prodromiche. Poiché questi modelli di intervento si rivolgono principalmente a giovani pazienti considerati a rischio di sviluppare un disturbo psicotico in un periodo di tempo relativamente breve, il trattamento d’elezione è necessariamente psicosociale: la ricerca in questo ambito ha quindi portato a un rinnovato interesse per gli interventi psicoterapeutici non solo per trattare le psicosi, ma anche per prevenirne l’insorgenza negli individui che presentano manifestazioni cliniche attenuate o ai limiti della diagnostica. Possiamo quindi affermare che oggi la psicoterapia delle psicosi è una realtà.

1 commento

Trackbacks & Pingbacks

  1. […] relazioni e dell’autonomia personale, oltre alla possibilità di ottenere i massimi benefici da una psicoterapia. Per molti, questo significa poter mantenere un lavoro, seguire un percorso formativo o […]

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *