Il primo appuntamento della giornata con un disturbo da panico

disturbo da panicoÈ lunedì mattina ed è il primo appuntamento della giornata, con un disturbo da panico. Quando entra, Lucia, chiamerò così questa persona, perché è una storia composita, tiene la borsa stretta al petto come si fa con l’aria quando scarseggia. Si siede, le spalle alte, lo sguardo cerca la finestra e poi il mio orologio. Il panico è spesso un animale senza nome: lo si avverte prima di riconoscerlo.

Mi dice che l’ultimo episodio è stato venerdì, in treno mentre andava al lavoro. «Tachicardia, tremori, come se il pavimento mollasse. Ho pensato: «Sto morendo o sto impazzendo.» È già passata un paio di volte per il pronto soccorso: elettrocardiogramma normale, esami ok. Le hanno spiegato che era panico e con una fiala di benzodiazepine glielo hanno fatto passare, ma ora qui ha paura che ricominci. Lo dice e intanto controlla dov’è l’uscita. Il panico non è tanto l’attacco in sé quanto il timore del prossimo: la vigilia permanente.

In questi primi minuti la mia tentazione è rassicurare: “No, non sta impazzendo.” È un impulso che sento nel corpo, come se dovessi tappare una falla. Ma noto anche come, se corro a chiuderla, rischiamo di non capire da dove entra l’acqua. Gli dico che capisco la paura e che qui cercheremo di darle un nome e un posto. Ci prendiamo il tempo: 45 minuti.

Lucia, che vive in una città della Romagna, racconta di aver iniziato a evitare: niente treno, niente caffè, meno uscite e sempre con persone fidate. Dorme male. «Ho avuto una promozione», aggiunge, quasi distrattamente. Poi un trasloco recente, una relazione sospesa, «in pausa». Il panico ha spesso il garbo maldestro di una lettera che arriva quando non c’è nessuno in casa: bussa forte, sfonda la porta e sembra un ladro. Provo a restituire questa immagine: forse l’attacco di panico è un postino ruvido che porta un messaggio.

«Quale messaggio?» chiede. È una buona domanda. Le propongo di ripercorrere il primo episodio. Era in un supermercato, corsia dei detersivi: «Mi ha chiamato mia madre, parlava della zia in ospedale, e all’improvviso non ho sentito più le mani.» Mentre racconta, le sue dita cercano il bracciolo della poltrona. Le chiedo cosa ha provato oltre alla paura fisica. «Fastidio. Lei si appoggia sempre a me.» Annuisce, poi si corregge: «No, è normale, sono sua figlia…» Il panico, qui, mi appare come un cortocircuito tra il dover essere forte e l’impossibilità di respirare.

Nel dialogo emergono piccoli indizi: un padre presente ma esigente, un’educazione alla performance, la fatica a dire “no” senza sentirsi colpevoli. Lucia mi guarda e chiede: «Ma lei può promettermi che non mi viene qui, nel suo studio?» Avverto la pressione a fare da talismano. Scelgo un’altra strada: «Se arriva, possiamo osservarlo insieme. Possiamo tentare di dargli un nome.» Nella stanza, l’idea di “insieme” sembra allentare qualcosa. L’angoscia, quando è condivisa e nominata, smette di essere un buco nero e diventa una nuvola: fa ombra, ma ha contorni.

Parliamo dei segnali del corpo, di come il respiro si stringe e la mente interpreta in catastrofe. Non minimizzo: il terrore è reale. Ma propongo una doppia pista: comprendere la funzione dell’attacco — a cosa serve, cosa interrompe, cosa segnala — e nel frattempo costruire micro-interventi per l’emergenza (un posto dove sedersi, un bicchiere d’acqua, l’atto concreto di nominare “questo è panico, e passa”). È una clinica della soglia: tra dentro e fuori, tra autonomia e bisogno.

Quando le chiedo che cosa teme di più durante l’attacco, risponde: «Di restare sola».» È un paradosso noto: spesso il panico spinge ad evitare gli altri, ma la sua ferocia è proprio l’eco della solitudine. Provo a restituire: «Forse il corpo suona un allarme quando la parte che chiede aiuto viene messa troppo in silenzio.» Non è un’interpretazione definitiva, solo una mappa provvisoria. Lei annuisce, meno teso. «Qui non deve cavarsela da sola» aggiungo.

Verso la fine, torna a respirare con calma. Fisso con lei un altro incontro prima di decidere se iniziare o meno una terapia. Il “ritmo” è già cura: dà al sistema nervoso una cadenza prevedibile. Alla porta si volta: «Mi sembra che qui… si possa respirare un po’ di più.» Sorrido: non è guarigione, è campo d’aria. In psichiatria dinamica, il primo consulto non chiude nessun caso: apre una scena. Il panico, da intruso, entra in terapia come un personaggio scomodo ma necessario. Il compito sarà farlo parlare senza che prenda tutta la parola; dargli posto perché ci lasci spazio. Fuori, il traffico riprende. Dentro, comincia un lavoro.