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È meglio la psicoterapia psicoanalitica o la terapia cognitivo-comportamentale?

È meglio la psicoterapia psicoanalitica o la terapia cognitivo comportamentale? È meglio la psicoterapia psicoanalitica o la terapia cognitivo-comportamentale? Questa è una domanda che mi sento spesso porre dalle persone che mi contattano per un primo consulto.

Come psicoanalista e psichiatra di orientamento fenomenologico, il mio primo criterio di scelta non è quale tecnica funzioni di più in assoluto, ma quale modello terapeutico possa incontrare meglio la forma dell’esperienza di quella persona, nel qui e ora. Vi sono casi in cui la psicoterapia psicoanalitica è maggiormente indicata di una terapia cognitivo-comportamentale (CBT). Vediamoli in maggiore dettaglio.

1) Quando il problema non è solo “cosa penso”, ma “come sono nel mondo”. Se i sintomi appaiono come la superficie di una trama più profonda, quali: pattern relazionali ripetitivi, sentimenti di vuoto, senso di vergogna persistente, difficoltà a riconoscere i propri stati interni, la problematica centrale non consiste in credenze disfunzionali da correggere (l’obbiettivo della CBT), bensì comprendere le strutture di senso che organizzano l’esperienza. La psicoterapia psicoanalitica, grazie al lavoro sul transfert e alla libera associazione, facilita l’emergere di tali forme implicite.

2) Storie di disagio prolungate e identità in bilico. Nei disturbi di personalità (evitante, ossessivo, borderline) o nelle sofferenze identitarie di vecchia data caratterizzate da autocritica implacabile, relazioni intensamente altalenanti, paura dell’intimità, un trattamento a matrice psicoanalitica può offrire al paziente uno spazio terapeutico dove osservare, rappresentare e trasformare gli schemi affettivi profondi che non si lasciano “ristrutturare” con esercizi a breve termine.

3) Traumi relazionali precoci e attaccamento. Quando il nucleo della sofferenza è un trauma evolutivo, quindi non l’evento acuto, ma anni di imprevedibilità affettiva, la cura passa anche per la qualità del legame terapeutico. Il metodo psicoanalitico privilegia un lavoro graduale sulla fiducia, sull’ambivalenza, sul riconoscimento del Sé nello sguardo dell’altro (ma nelle fasi di crisi può essere utile integrare interventi di stabilizzazione anche di matrice cognitivo-comportamentale, come nella psicoterapia delle psicosi).

4) Sintomi migranti, somatizzazioni, depressioni persistenti. Quando cioè i sintomi cambiano volto nel tempo (oggi insonnia, domani ipocondria, etc.), o quando il corpo “parla” al posto delle parole, spesso il nodo non è un pensiero irrazionale specifico ma un modo di regolare affetti e prossimità. L’attenzione psicoanalitica alla storia emotiva e ai significati taciti può andare più a segno.

5) Disponibilità al tempo e al lavoro in profondità. La psicoterapia psicoanalitica richiede curiosità per la propria vita interiore, tolleranza dell’ambiguità e investimento per periodi più lunghi della CBT. È adatta a chi non cerca solo la riduzione del sintomo, ma una riorganizzazione del modo di percepirsi e di stare con gli altri. Va da sè che in un’epoca in cui le persone sono sempre alla ricerca del “magic bullett” si finisce spesso per optare su terapie brevi anche quando esse sono francamente controindicate,.

Spiegare quando è maggiormente indicata la CBT è decisamente più facile, dato che per definizione si tratta di un modello terapeutico focalizzato sul problema, e che la CBT si concentra sul trattamento delle distorsioni cognitive e dei comportamenti a queste associati con l’obiettivo di insegnare al paziente strategie di coping maggiormente adattive.

Pertanto, se il problema è circoscritto e ben definito, quali attacchi di panico senza comorbilità complesse, fobie specifiche, insonnia primaria, compulsioni centrate su rituali riconoscibili, un protocollo cognitivo-comportamentale breve e mirato può offrire risultati rapidi e robusti. Anche nei quadri misti ansioso-depressivi, nel DOC, nei disturbi alimentari e nelle dipendenze, moduli CBT (quali ad esempio: psicoeducazione, esposizione, ristrutturazione) possono integrare utilmente un percorso psicoanalitico.

Le domande che io mi pongo di solito quando devo decidere quale terapia consigliare al paziente sono le seguenti:

  • Il paziente chiede soprattutto “come smettere?” o “perché mi succede proprio questo, con queste persone, in questi momenti?”
  • Le difficoltà compaiono in episodi isolati o come stile di vita ripetuto?

  • Prevalgono credenze disfunzionali chiaramente identificabili o vissuti difficili da nominare (vuoto, alienazione, scollamento dal corpo)?

  • C’è disponibilità ad abitare il tempo della scoperta, non solo della tecnica?

Quando la sofferenza riguarda la struttura dell’esperienza—identità, legami, senso di sé e del mondo—la psicoterapia psicoanalitica è spesso la via più feconda. Quando invece il problema è un sintomo bersaglio, delimitato e mantenuto da apprendimenti specifici, la CBT è la scelta più economica ed efficace. Molte volte, il meglio nasce dall’incontro: una mente che si comprende più a fondo e, insieme, apprende nuovi modi di agire.