Sul tabù del controtransfert e le violazioni del setting analitico
Oggi voglio affrontare un tema spinoso che riguarda il tabù del controtransfert e le violazioni del setting analitico. Pare infatti che questo sia un tema che interessa molto i pazienti e i potenziali analizzandi. Ma iniziamo con un po’ di teoria del setting, parlando del controtransfert, concetto centrale dell’analisi junghiana.
Il “setting” analitico non è una sacrestia: è una cornice di lavoro, semplice e severa, certo, ma costruita per proteggere la ricerca di verità che due persone tentano di condurre insieme. E tuttavia, attorno a quella cornice si è sedimentato un alone di sacralità che fa male a tutti: al paziente, che vi si sente misurato col righello e l’incenso e all’analista, che vi si nasconde come dietro una tonaca. È in questo clima che il cosiddetto controtransfert – termine che descrive i sentimenti dell’analista nei confronti del paziente – diventa tabù. Come se i sentimenti, i pensieri, le impazienze e le attrazioni dell’analista fossero una macchia da lavare via, anziché uno strumento di lavoro da maneggiare con rigore.
Chiamiamo le cose col loro nome: il controtransfert è la risposta emotiva dell’analista alla presenza del paziente. Non si tratta di un vizio privato ma di una fonte di dati. Quando lo si tratta come un peccato, lo si spinge nel retrobottega della coscienza; lì fermenta e ritorna sotto forma di violazioni del setting. Ritardi abituali, sedute accorciate a piacere, risposte a telefonate nel mezzo di un racconto cruciale, confini economici oscillanti, inviti a “darci del tu” per placare disagi, incursioni sui social che trasformano l’analisi in un salotto. Fino ad arrivare alle relazioni sessuali che si sviluppano tra analista e paziente Ebbene, questi non sono incidenti casuali: sono acting out del controtransfert non elaborato da parte del terapeuta.
Perché il tabù? Perché riconoscere il controtransfert incrina il mito della neutralità dell’analista come specchio perfetto. Ma la neutralità non è assenza di persona: è disponibilità a esaminare ciò che accade dentro di sé mentre si entra in relazione con l’altro. L’analista che recita la parte della lastra di vetro si mette al riparo dal giudizio, dal confronto, dalla responsabilità. È comodo, ma è anche pericoloso. Le istituzioni, talvolta, collaborano a questo silenzio: chiamano “riservatezza” ciò che somiglia all’omertà; proteggono il collega invece del paziente; trasformano la supervisione in liturgia. Così la cornice si irrigidisce e, insieme, si frattura: si pretende obbedienza al rito, mentre si tollerano discreti strappi nelle regole.
C’è poi la seduzione, parola che fa arrossire più dei bilanci. La seduzione attraversa ogni relazione umana; in analisi, se non viene prevista ed elaborata, diventa la scorciatoia più elegante per evitare la verità. Il transfert erotico del paziente – il desiderio, la tenerezza, l’ammirazione, ma anche la sfida – non è un incidente, è materiale clinico. Il controtransfert erotizzato dell’analista non è una vergogna da tacere (e meno che mai da agire), ma un segnale d’allarme e una bussola. Quando la seduzione resta senza nome, scivola nell’agito: piccoli complimenti che cercano gratitudine, sguardi che allungano la seduta, confidenze personali come moneta di scambio, confini che si “adattano” all’occasione, fino alla sessualità esplicitata. È la complicità narcisistica: ci si piace e ci si perdona tutto, a scapito del lavoro.
Maneggiata con onestà, invece, l’attrazione, anche quella di tipo erotico, diventa materiale da elaborare. Non si tratta di moralismo, ma di metodo: tradurre in parole il desiderio, la voglia di compiacere, la fantasia di salvare o di essere salvati; esplorarne la storia nella vita del paziente; chiedersi perché proprio adesso, con questo analista, in questa scena. L’analista non risponde con l’azione, risponde con il pensiero. Non “concede” né “castiga”: interpreta, differisce, tiene il campo. La riparazione, quando serve, non è un bouquet di scuse: è ristabilire la cornice e interrogare insieme la crepa che l’ha incrinata.
Che cosa interessa tutto questo a un lettore non specialista? Molto. Perché la terapia non è un sacramento: è un lavoro, e il suo valore dipende dalla qualità della relazione. Il setting – orari stabili, durata chiara, pagamenti trasparenti, confini definiti – è il laboratorio, e il controtransfert, se riconosciuto, è la bussola che permette di leggere le correnti emotive; la seduzione, se pensata, è un linguaggio che dice qualcosa di vero sull’incontro. Quando la cornice viene violata senza nome e senza riparazione, il paziente paga due volte: perde fiducia e perde materiale di pensiero.
La via d’uscita è semplice, benché esigente: tradurre in parole ciò che accade nel setting. Se l’analista è in ritardo, lo si dice e se ne esplora il senso. Se un gesto seduttivo invade il campo, lo si porta nel discorso, non nel segreto. Se una violazione si ripete, si chiede una riparazione. E se l’analista non può o non vuole riflettere sul proprio controtransfert, si cambia analista: non per punire, ma per salvare il lavoro. La psicoanalisi non vive di perfezione: vive di verità. L’analista non è una macchina neutra; è un essere umano che, per mestiere, si sottopone alla disciplina di pensare anche i propri inciampi. Quando questo accade, il tabù si scioglie, la seduzione diventa sapere, e la cornice – umile, non sacra – torna a sostenere la ricerca di verità di entrambi.

