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Come aiutare un paziente a scegliere il proprio terapeuta

Come aiutare un paziente a scegliere il proprio terapeutaIn questo articolo cercherò di spiegare come aiutare un paziente a scegliere il proprio terapeuta. Si tratta di un argomento molto importante in quanto la scelta di un terapeuta è già un intervento clinico. Quando faccio consulenze in Ospedale mi capita spesso: qualcuno arriva in consultazione, motivato ma confuso, e alla fine della visita mi chiede come orientarsi nella scelta di un terapeuta navigando tra approcci, titoli e promesse.

La domanda “come aiutare un paziente a scegliere il proprio terapeuta” è più che una curiosità semantica: è un atto di cura. La fase di matching non è un prologo neutro è parte del trattamento. Se la trattiamo come tale, evitiamo due errori tipici: idealizzare la “scuola migliore” o ridurre tutto a simpatia. La bussola? Una combinazione di bisogni del paziente, competenze del professionista e qualità dell’alleanza.

Perché intervenire sulla scelta del terapeuta? Prevalentemente per tre motivazioni:

  • Per prevenire drop-out precoci

  • Per ridurre il pellegrinaggio terapeutico (il cosiddetto doctor shopping)

  • Per favorire una cornice chiara: in termini di ruolo, tempi e aspettative

Dato che qui non vendiamo ricette, cerchiamo di offrire criteri che combinano clinica e pragmatismo, utili al paziente ma anche ai colleghi quando facciamo invii. A mio modo di vedere tre sono i principali fattori da considerare nella scelta di un terapeuta.

Il primo consiste nel mappare il bisogno del paziente facendo quella che io chiamo una diagnosi funzionale (non un’etichetta diagnostica stile DSM-5) chiedendosi:

  • Si tratta di un problema circoscritto o di un pattern pervasivo? Per capirci, attacchi di panico recenti o relazioni ripetutamente disfunzionali richiedono strategie diverse

  • Qual è il livello di intensità e di rischio: in presenza di ideazione suicidaria, abuso di sostanze, disturbi alimentari severi è indicato l’invio verso team integrati (psichiatra + psicoterapeuta)

  • Qual è lo stadio motivazionale del paziente: chi cerca “strumenti rapidi” può iniziare con setting focalizzati; chi desidera comprendere la propria storia, invece, può beneficiare di un lavoro psicodinamico/psicoanalitico

Il secondo consiste nella scelta di una cornice e di un metodo, privilegiando la concretezza rispetto alle teorie e valutando in particolare:

  • La frequenza e la durata del trattamento: il paziente può sostenere una seduta settimanale per alcuni mesi? Serve un’intensità maggiore?

  • Lo stile di lavoro più opportuno per il problema lamentato: protocolli strutturati (compiti, monitoraggi) vs. spazio esplorativo orientato al significato

  • Il tipo di setting (a distanza o in presenza): valutando le competenze specifiche per la teleterapia, la privacy domestica e la stabilità della connessione

Il terzo fattore riguarda infine le competenze e l’etica del terapeuta; un “minimo sindacale” che non è affatto minimo. In questo caso suggerisco al paziente di valutare:

  • I titoli del terapeuta: iscrizione all’Albo, specializzazione in psicoterapia; per i farmaci, un medico psichiatra

  • L’adesione del terapeuta a una supervisione attiva: casi discussi in modo regolare, umiltà clinica

  • Trasparenza su costi, cancellazioni, privacy: niente zone grigie

Aiutare non significa scegliere al posto del paziente; significa creare le condizioni perché riesca a capire cosa gli serve. La leva del cambiamento è l’alleanza terapeutica: su questo tutta la letteratura è concorde, la qualità della relazione predice l’esito della terapia più della scuola di appartenenza del terapeuta. Traduciamo questo in esperienza concreta.

Indicatori che l’alleanza sta emergendo:

  • Il paziente si sente ascoltato senza fretta, anche quando fatica a dirlo.

  • Il terapeuta restituisce ipotesi di lavoro comprensibili, non gergo autoreferenziale.

  • C’è tolleranza del silenzio e delle emozioni intense; niente minimizzazioni.

  • Vengono concordati obiettivi misurabili (anche qualitativi): sonno, riduzione evitamenti, miglioramenti nelle relazioni

Red flags da nominare subito: ovvero cose a cui fare attenzione.

  • Promesse miracolistiche (“guarigione in dieci sedute”).

  • Confini del setting troppo labili: messaggi notturni non urgenti, disclosure personale eccessivo.

  • Resistenza a parlare di tariffe, titoli, privacy.

  • Colpevolizzazione del paziente per la persistenza dei sintomi o la difficoltà a cambiare.

Ma perché fare tutto questo discorso? Semplice; a volte sentiamo che non siamo la persona giusta per quel paziente: per rischio clinico, conflitti di orari, o perché il controtransfert è troppo saturo. Dirlo in modo chiaro e rispettoso è un atto terapeutico. Un buon invio valorizza il lavoro svolto e preserva la continuità del paziente.

Condivido una mini-procedura che utilizzo in fase di consultazione per accompagnare l’invio. È breve, strutturata e rispettosa dell’autonomia del paziente.

Step 1: definisco il tipo di richiesta e la gravità del problema lamentato

  • 2–3 obiettivi prioritari in linguaggio semplice

  • Rischi attuali e fattori di protezione o di aggravamento

  • Preferenze logistiche (zona, budget, online/in presenza)

Step 2: offro al paziente alcune opzioni qualificate (3 nominativi, non 30)

Presento al massimo tre professionisti possibilmente di sesso diverso che corrispondono al profilo, diversificando scuole/stili. Per ciascuno:

  • Breve descrizione dello stile clinico.

  • Indicazioni su frequenza/costi.

  • Disponibilità stimata.

Step 3: suggerisco alcune domande guida da porre nel corso del primo colloquio

Invito il paziente a porre queste domande al nuovo terapeuta per aiutarlo nella scelta:

  • “Qual è la cornice che propone per il mio caso e come valuteremo i progressi?”

  • “Come gestisce le urgenze tra una seduta e l’altra?”

  • “Ci sono situazioni in cui consiglia un invio integrato o farmacologico?”

Step 4: debrief dopo 2–3 incontri

Dato che un invio è un’operazione delicata, fisso un breve follow-up (solitamente telefonico) per leggere insieme i cosiddetti segnali deboli:

  • Si sente più capace di nominare ciò che prova?

  • La relazione gli permette di dire il non detto?

  • Vede una traiettoria (non necessariamente miglioramenti eclatanti, ma almeno una direzione)?

Questo follow-up è opportuno per far capire al paziente che cambiare terapeuta non è un tradimento ma un’autoregolazione. Ecco perché ritengo opportuno offrire sostegno nell’eventuale congedo e, se opportuno, aiuto in un secondo invio. La meta non è “restare” ma trovare il luogo giusto e la persona giusta con cui cambiare.

Aiutare un paziente a scegliere il proprio terapeuta è un atto importantissimo in quanto significa prendere sul serio la relazione e il contesto in cui nasce. Con pochi passaggi chiari, possiamo trasformare uno shopping confuso in un percorso intenzionale. Ecco perché è importante che il paziente capisca che non cerchiamo il terapeuta perfetto ma l’incontro giusto, oggi, per quella persona, per aiutarla a cambiare quando noi non siamo in grado di farlo.